PERCHÉ MOLTE SCOPERTE SCIENTIFICHE SONO PIÙ NOTE DELLE MENTI – E DELLE DONNE – DA CUI SONO NATE?

Jane Goodall
C’è un modo preciso per definire l’anonimato che con spiacevole ricorrenza ha colpito le donne nella storia della scienza. Si parla, infatti di “effetto Matilda”, espressione coniata nel 1993 la storica della scienza Margaret W. Rossiter.
A restare ignote non sono le scoperte scientifiche di cui tutt’ora beneficiamo, ma le menti – nello specifico femminili – che le hanno partorite.
Rossiter utilizzò per la prima volta quest’espressione per descrivere «la natura sessista» del mancato riconoscimento delle donne nella ricerca scientifica e l’attribuzione sistematica del merito dei loro risultati ai colleghi uomini. L’espressione deve il nome alla femminista Matilda Joslyn Gage, che nel 1870 pubblicò il saggio Woman As Inventor in cui raccontava come diverse scoperte scientifiche ed invenzioni fossero il risultato del lavoro di donne rimaste nell’anonimato.
Qualche tempo fa ho letto un libro dedicato alle vite dimenticate di dieci scienziate che hanno per sempre segnato la storia delle scienze ambientali. Si intitola Prime, un’opera a più voci curata da Mirella Orsi e Sergio Ferraris. I nomi di queste scienziate – Jane Goodall, Rachel Carson, Jeanne Baret, per citarne solo alcune – potrebbero non dirci nulla. La storia, infatti, ci ha spesso consegnato una versione parziale della genesi delle loro scoperte: nella maggior dei casi attribuite a degli scienziati, che seppur giunti dopo rispetto alle loro colleghe, hanno ingiustamente ottenuto il riconoscimento dell’intera comunità.
Riscoprire queste storie può riscrivere il nostro immaginario: sradicare dal profondo quei pregiudizi di cui ci siamo nutriti per generazioni, a volte senza neppure accorgercene.

AMARE IL MONDO POTREBBE SALVARLO
Ciao
questo è un nuovo Brunch con Vaia e per l’occasione, ho invitato un’ospite d’eccezione: Chiara De Marchi. Biologa e divulgatrice scientifica, Chiara è un’attivista nella lotta agli stereotipi di genere che in passato hanno influito anche sulle sue personali scelte di formazione. Fino a quando non ha deciso di seguire la propria strada e motivare altre donne a fare la stessa cosa. Perché ispirarsi a un modello, è spesso il primo passo verso un possibile cambiamento. Oggi Chiara – che continua il suo percorso di studi in Biotecnologie per la Medicina Traslazionale – è Ambassador di Generazione STEM, una community che promuove l’empowerment femminile nelle discipline scientifiche, raccontando storie di successo che possano ispirare e motivare altre donne. Ma tutto è iniziato molto prima, quando sin da bambina trascorreva intere serate a osservare e riconoscere le costellazioni insieme al papà. A volte il contesto familiare e sociale ci porta a intraprendere strade diverse. Eppure, con caparbietà e coraggio, lei è riuscita a imboccare nuovamente quella che per svariate circostanze aveva abbandonato, ma che ha sempre saputo essere quella giusta per lei. Ma ora vi lascio alla nostra piacevole chiacchierata.
Chiara, com’è nata la tua passione per le scienze?
Fin da bambina ero affascinata dalla natura e dal funzionamento delle cose, soprattutto quelle microscopiche. Passavo ore ad osservare le formiche e il loro incessante lavoro di squadra, a registrare su vecchie agende le abitudini dei gatti del quartiere, quasi fossero studi etologici in miniatura. Ritagliavo immagini di animali dalle riviste come Focus o Airone per creare i miei diari scientifici, dove annotavo dettagli su alimentazione, comportamento e habitat. Era il mio modo di esplorare il mondo, di capire come fosse strutturata la vita in tutte le sue forme.
Come ha influito il contesto in cui sei cresciuta?
Crescendo ho iniziato a sentirmi dire che la scienza non faceva per me. Alle scuole elementari, medie e superiori mi ripetevano che non ero portata per la matematica, la fisica o la chimica, che il liceo scientifico sarebbe stato troppo difficile per me. E così, quasi senza rendermene conto, ho finito per crederci. La cosiddetta profezia che si autoavvera: se ti senti dire per anni che non sei portata per qualcosa, alla fine inizi a convincertene davvero.
Nel mio contesto familiare, la scelta dell’istituto tecnico commerciale mi è stata proposta come la strada più sicura e adatta a me, e io l’ho accettata senza troppi dubbi, perché ormai pensavo di non avere alternative. Successivamente, mi sono iscritta a Mediazione Linguistica, un percorso che mi sembrava in linea con il mio indirizzo scolastico. Ero brava, sì, ma sentivo che quella non era la mia strada. Mi mancava qualcosa, quella scintilla di meraviglia che avevo provato da bambina guardando nel microscopio o alzando gli occhi al cielo.
Quando è arrivata la svolta?
Nel 2009 ho finalmente trovato il coraggio di ascoltare me stessa e mi sono iscritta a Scienze Biologiche. Sentivo di aver ripreso in mano il mio futuro. Ma proprio in quel momento è arrivata un’altra sfida: la diagnosi di una malattia infiammatoria cronica intestinale. Ricoveri, terapie debilitanti, dolore e sconforto hanno stravolto la mia vita. Ho dovuto mettere in pausa tutto, compresi gli studi. Per anni ho temuto di non poter più realizzare il mio sogno, ma alla fine ho deciso che non avrei lasciato che la malattia definisse i miei limiti. Ho ripreso in mano i libri a 35 anni affrontando non solo il carico di studio, ma anche i pregiudizi su cosa significhi essere una donna, una madre, una studentessa adulta in un ambiente che spesso non contempla percorsi non lineari.

Perché ancora oggi il gender gap è un ostacolo importante nelle discipline STEM?
Il gender gap nelle STEM ha radici profonde, che vanno oltre la semplice mancanza di rappresentanza. È una questione culturale, sociale e sistemica. Per secoli, le donne sono state relegate a ruoli di cura e materie umanistiche, mentre la scienza, la tecnologia e l’ingegneria sono state considerate “territori maschili”. Questa divisione non è mai stata basata su capacità innate, ma su aspettative culturali e stereotipi di genere che hanno limitato l’accesso delle donne a determinati campi. Già dall’infanzia, i condizionamenti giocano un ruolo chiave. Studi come quello condotto dall’American Association of University Women (AAUW) dimostrano che già a sei anni le bambine iniziano a percepire la matematica e le discipline tecniche come più adatte ai maschi. Questo fenomeno è noto come “stereotype threat” (minaccia dello stereotipo): quando un gruppo viene sistematicamente esposto all’idea di non essere portato per una determinata abilità, la performance in quell’area tende a risentirne. E quindi molte ragazze, anche se talentuose, rinunciano in partenza a percorsi STEM, convinte di non essere abbastanza capaci.
Il gender gap scava un solco profondo sin dall’infanzia, ma anche crescendo la situazione non migliora.
C’è un vero e proprio problema sistemico. Le difficoltà nella conciliazione tra carriera e vita familiare continuano a rappresentare un ostacolo enorme per le donne che lavorano in ambito STEM. Secondo un rapporto UNESCO del 2021, le donne costituiscono solo il 33% dei ricercatori a livello globale, e il loro numero diminuisce man mano che si sale nella gerarchia accademica e industriale. Questo fenomeno, noto come leaky pipeline, descrive il progressivo abbandono delle donne dai percorsi STEM a causa di barriere lavorative e sociali. Un altro grande problema è la scarsità di modelli femminili di riferimento. Se nei libri di scuola e nei media le figure di scienziati, ingegneri e innovatori sono quasi sempre uomini, come può una bambina immaginarsi in quei ruoli? La rappresentanza conta, e non solo a livello culturale, ma anche a livello neurologico.
Quando hai deciso di voler fare qualcosa per cambiare le cose?
Non c’è stato un momento preciso: una serie di esperienze che mi hanno fatto capire quanto sia importante dare voce a chi si sente fuori posto nel mondo della scienza. Per molto tempo, anch’io ho creduto di non poterci appartenere. Mi ero sentita dire che certe strade non facevano per me, che sarebbe stato meglio restare con i piedi per terra, scegliere qualcosa di più sicuro, più adatto, più realistico. Quando ho deciso di riprendere il mio percorso in biologia, non ho dovuto affrontare solo la sfida accademica, ma anche il pregiudizio di chi pensava che fosse troppo tardi, che una madre non potesse conciliare studio e famiglia, che una donna con una malattia cronica dovesse ridimensionare le proprie ambizioni. Ogni volta, una piccola parte di me vacillava. Ma poi pensavo a quanto tempo avessi già passato a credere di non essere abbastanza e mi sono detta che non avrei lasciato che gli altri decidessero cosa fosse giusto per me.
E proprio perché ho vissuto tutto questo sulla mia pelle, ho deciso di fare divulgazione scientifica. Per normalizzare la presenza delle donne nelle STEM, per abbattere gli stereotipi, per mostrare che la scienza è accessibile a chiunque abbia passione e determinazione. Perché non voglio che altre ragazze si sentano dire che “certe cose non fanno per loro” prima ancora di aver avuto la possibilità di scoprirlo.
Come divulgatrice scientifica, in che modo provi ad aiutare e ispirare bambine e giovani donne che non osano buttarsi in questo campo?
Il mio obiettivo principale è rendere la scienza un posto accogliente. Nei miei contenuti social cerco di smontare stereotipi con dati e ironia, di raccontare la bellezza della biologia e della ricerca in modo chiaro, senza perdere il rigore scientifico. Ma la divulgazione non è solo online: credo che il modo migliore per avvicinare bambine e ragazze alla scienza sia offrire loro esperienze dirette, in cui possano sperimentare, fare domande, mettersi in gioco senza paura di sbagliare. Per questo tra le mille cose che faccio, collaboro anche con un’azienda che porta laboratori STEM nelle scuole, dando alle più giovani la possibilità di toccare con mano la scienza e scoprire quanto possa essere appassionante. Faccio divulgazione online e offline, perché se anche solo una ragazza, dopo aver visto un mio video, letto una mia storia o partecipato a un mio corso, decide di seguire la sua passione scientifica senza sentirsi inadeguata, allora so di aver contribuito a un successo che va oltre me stessa: è un passo avanti per tutte.

Nettie Stevens
A quale scienziata del passato – o anche del presente – senti di esserti ispirata?
Se dovessi scegliere una scienziata che mi ha ispirato, direi Nettie Stevens. Ho scoperto la sua storia tardi, ma quando l’ho letta per la prima volta, mi ci sono ritrovata subito. Nettie è stata una genetista straordinaria, ma per molto tempo il suo contributo è stato ignorato, proprio come è successo a tante altre scienziate nella storia.
Cosa ti ha colpito della sua storia?
Mi ha colpito il fatto che a 35 anni abbia deciso di ricominciare tutto da capo, iscrivendosi all’università di Stanford. Parliamo del 1896, quando le donne nelle scienze erano pochissime, lei ha lasciato tutto per inseguire la sua passione. A 41 anni, nel suo laboratorio, sezionava insetti e osservava al microscopio qualcosa che nessuno aveva mai visto prima: i cromosomi sessuali. Fu lei a scoprire che i maschi hanno un cromosoma XY e le femmine XX, determinando che il sesso biologico è stabilito geneticamente e non da fattori ambientali, come si credeva all’epoca. Eppure, il suo nome rimase nell’ombra. Dopo la sua morte, il genetista Thomas Morgan proseguì le sue ricerche e, nel 1933, vinse il Premio Nobel senza che Nettie fosse mai menzionata. Solo nel 1994 la comunità scientifica ha finalmente riconosciuto il suo contributo.
In fondo, non è mai troppo tardi per inseguire un obiettivo.
Se c’è una cosa che ho imparato da storie come la sua è che non esiste un’età giusta per seguire la propria passione. Nessun percorso è sbagliato, se porta dove vogliamo arrivare. E un’altra lezione che ho fatto mia è che il fallimento non è qualcosa da temere, ma da normalizzare. Troppe volte si pensa che chi arriva a grandi risultati lo faccia senza inciampi, senza errori, senza ripensamenti. Ma è una narrazione sbagliata e pericolosa, perché fa credere che il successo sia solo di chi non sbaglia mai. Invece, fallire fa parte del percorso. La scienza stessa si basa sul fallimento: ogni esperimento che non va come previsto non è una sconfitta, ma un passo in più verso la conoscenza.